La compresenza di visibile e invisibile è ciò che alimenta la vita.
Noi arriviamo a riconoscere la straordinaria importanza dell'invisibile soltanto quando ci lascia soli, quando ci volge le spalle e scompare come Huldra nella foresta, come Yahwè sul Golgota.
Il grandioso compito di una cultura che voglia alimentare la vita, dunque consiste nel mantenere gli Invisibili attaccati a sé, gli dèi sorridenti e soddisfatti: nell'invitarli a rimanere con riti propiziatori e cerimonie; con canti e danze, addobbi e litanie; con feste annuali e commemorazioni; con grandi dottrine come quella dell'Incarnazione e con piccoli gesti intuitivi, come toccare legno, sgranare il rosario, tenere addosso una zampa di coniglio o un dente di squalo; o appendendo il mezuzoth
Queste cose non c'entrano con la fede, e dunque non hanno a che vedere con la superstizione.
Si tratta soltanto di non dimenticare che gli Invisibili possono andarsene, lasciandoci soltanto, per coprirci le spalle, i rapporti umani. Come dicevano i greci dei loro dèi:
Non chiedono molto, soltanto di non essere dimenticati.
I miti mantengono invisibilmente tra noi il loro regno daimonico.
Lo stesso fanno le fiabe popolari, come quella del taglialegna che lasciò cadere l'accetta dal taglio affilato, e penetrò sempre più nel profondo della foresta pre restare vicino a quel sorriso.
(estratto ieri notte dal libro Il codice dell'anima, di James Hillman. La pagina era la 146-147, il capitolo s'intitolava come ho intitolato questo post)
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